C’è una scena che ormai si ripete in tante case: il bambino o ragazzo apre l’app di un’AI “solo per farsi aiutare”, poi in tre minuti il testo è pronto… e in dieci secondi finisce incollato nei compiti. Il problema non è “l’AI cattiva”: il problema è che così non sta imparando nulla, e prima o poi si vede (verifiche, interrogazioni, fiducia, autostima).
L’AI può essere un tutor eccellente, ma solo se la usi come una bici con le rotelle: ti regge all’inizio, poi ti insegna a stare in equilibrio da solo.
Il confine tra “aiuto” e “copia”
Un criterio semplice che funziona quasi sempre: se alla fine tuo figlio non saprebbe spiegare a voce quello che ha scritto, allora non è aiuto. È delega. E quando deleghi l’apprendimento, non stai risparmiando fatica: la stai spostando più avanti, con interessi.
Un altro segnale: risposte troppo perfette, parole “da adulto”, frasi che non somigliano minimamente al modo in cui parla. In quei casi non serve la predica: serve cambiare metodo.
Il metodo giusto: usare l’AI come tutor, non come “stampante”
Ecco una routine concreta che puoi proporre senza trasformarti nel poliziotto dei compiti.
Prima, tuo figlio legge la consegna e la riscrive con parole sue in 2 righe. Se non ci riesce, l’AI può aiutare: “Spiegami la consegna come se avessi 10 anni” oppure “Fammi 3 esempi”. L’obiettivo è capire cosa viene chiesto, non produrre subito il tema.
Poi arriva la fase migliore: “Spiegami questo argomento con un esempio legato a qualcosa che mi piace (calcio/Roblox/animali)”. Se l’AI spiega bene, chiedi anche il contrario: “Adesso fammi 5 domande per vedere se ho capito”. Qui l’AI diventa davvero utile: trasforma lo studio in dialogo.
Quando è il momento di scrivere, la regola d’oro è: prima una scaletta fatta dal ragazzo. Anche brutta, anche con 5 punti. Solo dopo l’AI può dare una mano a migliorarla: “Questa è la mia scaletta, suggeriscimi cosa manca” oppure “Fammi notare dove non sono chiaro”. Così resta lui al volante.
Infine, la parte che evita i disastri: riscrivere tutto con parole proprie e leggerlo ad alta voce. Se suona finto, si corregge. Se non riesce a spiegarlo, si torna indietro. È noioso? Un po’. Ma è esattamente lì che succede l’apprendimento.
Un patto semplice che riduce i conflitti
In molte famiglie il vero tema non è l’AI: è il passaggio “gioco → studio”, che è durissimo perché il cervello deve cambiare marcia. Un patto funziona solo se è realistico e ripetibile.
Esempio pratico: “Prima 25 minuti di studio con obiettivo chiaro, poi 10 minuti di pausa”. Dopo due cicli, tempo gioco concordato. Se il ragazzo sa che il gioco torna davvero (e non dipende dall’umore dei grandi), smette di vivere i compiti come un sequestro.
E con l’AI, un patto ancora più semplice: “Puoi usarla, ma mi devi mostrare le domande che le hai fatto”. Non per controllare ogni riga: per insegnare che la qualità dipende dalle domande, non dal copia-incolla.
Attenzione a privacy e regole della scuola
Vale sempre una regola prudente: niente dati personali, niente nomi di compagni/prof, niente informazioni sensibili incollate dentro strumenti online. E vale anche un’altra cosa: alcune scuole stanno definendo regole specifiche sull’uso dell’AI. Se ci sono, rispettarle evita problemi e, soprattutto, evita di mettere tuo figlio nella posizione di “quello che bara”.
Se in casa il tema è Roblox/YouTube e compiti rimandati…
Se ti ritrovi nelle frasi “Ancora cinque minuti”, “Dopo lo faccio”, “Non ho tempo”, allora ti può essere utile un approccio più strutturato, con esempi pronti e un “patto di gioco” chiaro per età. In questo senso, il libro di Marco Ceretti che puoi acquistare qui su amazon, mette proprio al centro la quotidianità reale: passare dal gioco allo studio, ridurre i litigi, costruire orari sostenibili e capire quando preoccuparsi davvero.


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